Un figlio può dire di conoscere la propria madre?
Peter Handke con “Infelicità senza desideri” del 1976 e James Ellroy con “I miei luoghi oscuri” del 1997 percorrono due strade alla ricerca ciascuno della propria, delle sue pieghe segrete portate nella tomba.
Cosa sono questi figli che si trovano generati, espulsi nel mondo, costretti a cercare una immagine che li tenga legati ad una figura ancestrale, misteriosa, altra da loro: la madre di Handke, morta suicida a 51 anni, lui trentenne, la madre di Ellroy morta strangolata a 43, lui aveva 10 anni. Handke ne scrive circa due settimane dopo il decesso, Ellroy parecchi anni dopo quando entrambi sono scrittori famosi.
Handke ne parla in prima persona: ne racconta l’esistenza con un distacco che trattiene il dolore, la racconta nella sua essenza più intima come solo un figlio potrebbe fare. Una donna che vive la fatica con durezza e poi fa come quelli che “privati di una propria storia e dei propri sentimenti, col tempo si cominciava, come si dice degli animali domestici, per esempio dei cavalli, a “scartare”. Ci si faceva ombrosi e non si parlava quasi più…” Di lei racconta la dura fatica del gelo, del lavoro, della rigidità dei muscoli e dei sentimenti, dell’incomunicabilità fatta di poche stracciate parole che bisogna per forza dire, del dovere quotidiano che si fa dio perchè ti permette di mangiare qualcosa.
Della madre, attraverso gesti quotidiani, ricorda quelli di lei, sempre gli stessi, come tagliare il pane a fettine nel latte caldo per i suoi bambini, sembra esserci una certa intimità ma è solo apparente, come se guardasse un essere distanziante. Handke dice “più avanti scriverò di tutto questo in modo più preciso”. Ellroy agisce dall’alto di una sicura assoluta distanza, che però rivelerà le sue falle nello stile di vita che gli caratterizzerà gli anni avvenire dopo la morte di lei: depersonalizzato, la voce in esterno racconta per filo e per segno tutta la storia dell’omicidio e delle ricerche fatte allora e poi dopo, quando ha deciso di scriverne per saperne di più, per seguire la sua eterna ossessione per quella donna che chiama “la rossa”. “Sono determinato a trovarti….non puoi fuggire da me. Troppo a lungo sono fuggito da te”. Dopo 35 anni dalla sua morte, a quarantansei anni, si rimette alla ricerca del suo fantasma, ingaggia un investigatore e ripercorre il travaglio di una vita, di nuovo, pezzo per pezzo, “Ero uno scrittore molto ambizioso, morivo dalla voglia di affermarmi. Affermarmi significava due cose. Dovevo scrivere un grande romanzo poliziesco. Dovevo aggredire la vicenda cruciale della mia vita”. Gira sempre intorno a quella storia, finchè la sua donna guarda una foto della rossa e lo spinge a studiarla, “voleva che conoscessi mia madre, voleva che scoprissi chi era e perchè era morta”. Ripassa tutta la via della madre a partire dall’infanzia attraverso foto ingiallite. Al termine della corsa rimane lo struggimento di quella perdita prematura riassunta in quell’anelito “Ti sento. Stai stringendoti a me. Sei andata, e io voglio di più”. Per la cronaca il delitto rimase irrisolto.
Per Handke resterà la domanda “perchè?”, per Ellroy le domande “chi? come?”, per entrambi il senso di una invisibilità filiale che fa il paio con un vuoto che non potran mai colmare.